L’evoluzione del concetto di assertività: gli apporti di Wolpe e Lazarus

Un po’ di comportamentismo!

Un’abitudine è una risposta comportamentale automatica ad uno stimolo, e si sviluppa tramite la ripetizione di un comportamento in situazioni tra loro simili. Tendenzialmente, un’abitudine si estingue nel momento in cui le sue conseguenze non sono adattive, ovvero quando non soddisfa i bisogni della persona né le evita dolore o fatica.

Anche le abitudini definite “nevrotiche” hanno una loro funzione: secondo il recente Power Threat Meaning Framework (PTMF, 2018), le risposte alla minaccia sono da considerare di per sé adattive per il determinato contesto o memento di vita; esse possono però divenire patologiche se utilizzate eccessivamente. Per un approfondimento: clicca qui. La terapia comportamentale si pone l’obiettivo di applicare alcuni principi dell’apprendimento, stabiliti sperimentalmente, per andare oltre queste abitudini considerate indesiderate. Per il concetto di “apprendimento” si è adottata la definizione di Wolpe (1952): “Si può dire che l’apprendimento è avvenuto se una risposta è stata evocata in contiguità temporale con uno stimolo sensoriale dato, e successivamente si scopre che lo stimolo può evocare la risposta anche se prima non avrebbe potuto farlo […]”.

In cosa consiste il principio di inibizione reciproca?

Wolpe, analizzando le varie operazioni di condizionamento, prende in considerazione l’ansia, un elemento centrale delle reazioni considerate nevrotiche, e nota come questa nasca da livelli primitivi neurali. Per questo motivo, per far estinguere l’ansia, non sarà sufficiente utilizzare solamente un’azione di tipo intellettuale. Secondo quello che è stato denominato dallo stesso Wolpe “principio di inibizione reciproca”, una risposta inibitoria dell’ansia che si verifica in presenza di stimoli che la evocano, può indebolire il legame tra questi stimoli e l’ansia. Questo principio entra in gioco anche per superare risposte diverse dall’ansia. Lo studioso ha dimostrato questo concetto tramite alcuni esperimenti sui gatti: questi ultimi venivano esposti ad una forte scossa, accompagnata da un suono specifico. Ripetendo lo stesso meccanismo per più volte, i gatti iniziavano a reagire al solo suono (condizionamento pavloviano classico). Wolpe è riuscito poi ad andare oltre: egli ha dimostrato che la riposta di paura dei gatti poteva essere gradualmente disimparata, invertendo lo stimolo e associando allo stesso suono la presentazione di cibo.

L’assertività come strumento per inibire l’ansia

Nel libro in cui viene esposto il trattamento delle nevrosi, Wolpe parla di “assertiveness”, riprendendo quanto teorizzato dallo psichiatra Salter (per maggiori informazioni sull’autore, si veda l’articolo L’inizio degli studi sull’assertività), e assieme a Lazarus considera l’assertività come mezzo di inibizione reciproca dell’ansia. Secondo gli studiosi, infatti, l’essere assertivi (e quindi riuscire ad esprimere apertamente i propri sentimenti senza ledere quelli altrui) implica l’inibizione dell’ansia. Da questo momento in poi, l’assertività è stata utilizzata all’interno della terapia comportamentale. Wolpe ha così ideato un training assertivo, con il fine di ridurre l’ansia. Successivamente, Wolpe e Lazarus hanno sviluppato un questionario per valutare l’assertività (Wolpe & Lazarus, 1966). Gli obiettivi dei training sull’assertività includono: una maggiore consapevolezza dei diritti della persona (qui puoi trovare i 10 diritti assertivi di J. Smith); differenziazione tra passività, aggressività e assertività; acquisizione di capacità assertive verbali e non verbali.

L’uso centrale delle risposte assertive è quello di superare le abitudini nevrotiche delle risposte dell’ansia in contesti interpersonali. I training assertivi hanno infatti anche gli obiettivi di diminuire l’ansia e aumentare il senso di sicurezza nelle situazioni sociali. Per illustrare l’uso delle risposte assertive nell’attuazione del paradigma dell’inibizione reciproca, possiamo prendere come esempio un individuo la cui madre aggressiva e critica lo ferisce. Questo soggetto ha imparato a non esprimere il proprio risentimento, a tenere tutto dentro e isolarsi. Tramite un training di assertività, a questa persona verrà fatto sperimentare che, esprimendo il proprio risentimento, si potrà inibire l’ansia provata e acquisire una maggiore padronanza della situazione interpersonale, e dunque anche una maggiore fiducia in sé.

Com’è strutturata la tecnica di desensibilizzazione sistematica?

Dal principio di inibizione reciproca, Wolpe ha sviluppato una famosa tecnica comportamentale: la Desensibilizzazione Sistematica. La risposta antagonista dell’ansia, a livello fisiologico e comportamentale, è stata individuata dall’autore nel rilassamento muscolare (secondo la tecnica di Jacobson). Oltre all’assertività e all’auto-affermazione, Wolpe notò infatti come il rilassamento profondo avesse effetti diametralmente opposti rispetto a quelli dell’ansia. La desensibilizzazione sistematica si compone di tre step: il rilassamento muscolare, la creazione di una gerarchia d’ansia, e la contrapposizione del rilassamento con l’evocazione degli stimoli ansiogeni della gerarchia. Si parte dunque con il rilassamento dei vari muscoli del corpo, facendo notare alla persona la differenza tra le sensazioni provate in tensione e quelle in rilassamento. Si chiede poi all’individuo di creare una lista di stimoli ansiogeni, dal meno al più angosciante. Nel momento in cui la persona si trova in uno stato di rilassamento, le si presenta lo stimolo (reale o immaginato) che le provoca ansia, per poi passare al successivo solo quando il precedente non le provoca più stati d’animo negativi. Le difficoltà che si possono riscontrare in questa tecnica sono: problemi di rilassamento, gerarchie mal costruite, carenze nelle abilità immaginative.

La desensibilizzazione sistematica ha reso possibile il controllo diretto su un gran numero di abitudini nevrotiche. Per esempio, per estinguere una fobia specifica di un bambino, lo si esponeva a piccole dosi di ciò che temeva, in circostanze in cui però erano presenti emozioni opposte all’ansia. Il primo utilizzo di questa tecnica nel contesto clinico risale a Jones (1924), che si è occupato di fobie nei bambini utilizzando il cibo: ai bimbi, durante l’ora del pranzo, veniva presentato ripetutamente e in modo graduale l’oggetto o la situazione temuti, mentre gli si dava loro da mangiare. La fame aveva dunque un ruolo nel superamento della paura.

L’approccio comportamentale e i suoi obiettivi

Per i terapeuti comportamentisti, l’obiettivo è quello di eliminare le abitudini disadattive. Per misurare il loro operato, sarà quindi necessario classificare ed elencare il numero di abitudini disadattive prima della terapia, per poi verificare se ogni abitudine è stata eliminata o meno. È quindi un merito dell’approccio comportamentista quello di poter valutare ogni cambiamento esclusivamente in termini di riferimento definiti in modo chiaro.
La terapia comportamentale deve essere sempre basata su un’adeguata analisi comportamentale: il terapeuta ha spesso bisogno di conoscere gli stimoli che precedono le reazioni di cui i pazienti si lamentano (come gli attacchi di panico, le compulsioni, le fobie…). Per questo motivo, si indaga la storia personale del paziente: i suoi problemi attuali e passati, la sua famiglia, i fattori che hanno peggiorato o migliorato la sua situazione, la sua educazione, il lavoro, e così via. La terapia vuole essere individualizzata, e tenere conto delle esigenze personali di ogni persona.

Elena Baldo

Bibliografia

Jones, M. C. (1924). Elimination of children’s fears, J. Exp. Psychol. 7:382.

Jones, M. C. (1924b). A laboratory study of fear. The case of Peter, J. Genet. Psychol. 31:308.

Lazarus, A. A. (1961). Group Therapy of phobic disorders by systematic desensitization, J. Nerv. Ment. Dis. 136:272.

Wolpe, J., Lazarus, A. (1968). Behavior Therapy Techniques, a guide to the Treatment of Neuroses, Pergamon Press.

Speed, C., Goldstein, L., Goldfried, R. (2018). Assertiveness Training: A Forgotten Evidence-Based Treatment, Clin Psychol Sci Prac. 25: 1–20.

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